7 Miliardi di Mr. Hyde

  • 13-09-2015
  • Jasna Legiša

SCRITTO DA Guido Valobra  http://www.lifecoachtorino.com/
Nel 1971 un giovane insegnante di Psicologia all’Università di Stanford, California, disegnò un esperimento che, a ragion veduta, è rimasto come pietra migliare nella storia della Psicologia Sociale. Il professore era Philip Zimbardo. L’esperimento va sotto il nome di Stanford Prison Experiment (SPE).

Zimbardo decise di trasformare lo scantinato di uno dei padiglioni dell’università in una prigione. Un nutrito gruppo di studenti, dietro compenso, si presentarono volontariamente per partecipare all’esperimento. Zimbardo però condusse un’attenta selezione e scelse coloro che avrebbero partecipato solo tra quelli che presentavano una fedina penale immacolata, e che dopo un attento esame della personalità potevano essere categorizzati in un gruppo di “aurea mediocritas”, cioè nessuno con tendenze né violente né passive.  Studenti maschi tranquilli provenienti da famiglie della media borghesia locale, senza particolari problemi alle spalle.

Questi studenti sarebbero poi stati divisi, assolutamente a caso, in due gruppi: guardie e carcerati.

Un bel dì, con mossa a sorpresa, la polizia di Palo Alto, il paese adiacente all’università, bussò alla porta delle case degli studenti scelti come prigionieri, notificando loro un mandato d’arresto. Invece di portarli nella locale prigione, vennero portati alla fittizia prigione dell’università, dove gli studenti guardie – vestiti da guardie – li stavano aspettando.

L’esperimento sarebbe dovuto durare un paio di settimane. Al quinto giorno il professor Zimbardo (che era anche il direttore della prigione), spinto dalla sua assistente che si era accorta prima di lui di come la situazione stesse finendo fuori controllo, terminò prematuramente l’esperimento.

Quello che in quei cinque giorni accadde in quello scantinato universitario aveva molto di surreale.

Ecco come viene descritto il comportamento degli studenti che vi parteciparono su Wikipedia:

“Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle inveendo contro le guardie; queste iniziarono a intimidirli e umiliarli cercando in tutte le maniere di spezzare il legame di solidarietà che si era sviluppato fra essi. Le guardie costrinsero i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le latrine a mani nude. A fatica le guardie e il direttore del carcere (lo stesso Zimbardo) riuscirono a contrastare un tentativo di evasione di massa da parte dei detenuti. Al quinto giorno i prigionieri mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: il loro comportamento era docile e passivo, il loro rapporto con la realtà appariva compromesso da seri disturbi emotivi, mentre per contro le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i ricercatori interruppero l’esperimento suscitando da un lato la soddisfazione dei carcerati, ma dall’altro un certo disappunto da parte delle guardie.”

I risultati di questo esperimento, dal 1971 fino ad oggi, hanno avuto riverberazioni, ripercussioni, studi e analisi in tutte le scienze del comportamento, le scienze sociali e politiche fino ad oggi

Il 19 marzo 2003 gli eserciti della Coalizione guidata dall’ Armata degli Stati Uniti entravano in Iraq. Gl’invasori, inizialmente accolti da molti come liberatori dalla tirannia di Saddam Hussein (non è questa la sede per discutere altri eventuali scopi di tale guerra) persero ben presto la loro aureola di portatori di libertà e democrazia.

Nell’aprile del 2004 esplose, grazie ad una spiata, lo scandalo della prigione americana di Abu Ghraib in Iraq, dove prigionieri iracheni venivano sottoposti a vessazioni e torture.

Il governo americano decise di fare un’investigazione sui fatti avvenuti nella prigione per accertare responsabilità e colpe. Uno degli esperti chiamati per esaminare la condotta dei carcerieri fu proprio il professor Zimbardo. La spiegazione dei comandi militari fu quella accettata, in totale contraddizione con quella, assai più scomoda, suggerita da Zimbardo.

Il Pentagono decretò che la colpa doveva essere attribuita ad alcune “mele marce” del servizio di sorveglianza alla prigione. Nel suo rapporto, Zimbardo invece spiegò che, a suo parere, era il canestro che conteneva le mele, ad essere marcio.

Zimbardo osservò che non esisteva nessuna ombra nella vita dei carcerieri-aguzzini. Non erano violenti, non lo erano mai stati in passato e non presentavano segni di personalità antisociale e men che meno di personali psicopatica presente.

Il loro comportamento, seppur direttamente responsabile di azioni inaccettabili,  era stato spinto e addirittura facilitato dalle condizioni in cui si erano trovati ad esercitare i loro incarichi. Pur non eliminando le responsabilità decisionali individuali, quei soldati non potevano in nessun modo essere definiti casi anomali, mele marce, sadici.  Tuttavia, data una situazione di estremo stress, superlavoro, affaticamento, dato che i comandi si lavarono bellamente le mani di come fosse condotto il carcere e che spesso gli interrogatori dei servizi d’informazione dell’esercito richiedevano al personale militare carcerario il supporto per “rammollire” la volontà dei prigionieri, la situazione era destinata a sfuggir di mano, non importa chi fosse di servizio.

Ancora una volta, Zimbardo non poteva che prendere atto del fatto che, date certe circostanze organizzative e sociali, coloro che avevano vissuto fino a quel momento una vita da Dottor Jekyll, tenendo a freno la parte malvagia del loro animo umano (Mr. Hyde), giorno dopo giorno, come il personaggio di Stevenson dopo aver ingerito troppe volte la sua pozione, si trasformarono in aguzzini.

In altre parole ognuno di noi, date determinate circostanze, può rilasciare il male nell’ambiente circostante, creando danni spesso irreparabili:

“Nell’ambito di certe potenti situazioni sociali, la natura umana può essere trasformata in modi così drammatici come nella trasformazione chimica narrata da Robert Luis Stevenson nella sua intrigante novella, Dr. Jekyll and Mr. Hyde. […] Lo Stanford Prison Experiment ci richiede chiaramente di abbandonare la nozione di un “io” buono capace di controllare una brutta situazione. Siamo assai più in grado di evitare, prevenire, sfidare o cambiare tali forze situazionali negative solo se siamo capaci di percepire la loro potenziale capacità di ‘infettarci’ “.

Ma se le circostanze abbassano il nostro livello di autocoscienza, non ce ne accorgeremo, e scivoleremo dentro il male, rendendocene conto, forse, quando è troppo tardi.

Harald Welzer, direttore del Centro Interdisciplinare di Ricerca sulla Memoria di Essen, Germania, prova a dare un’analisi dell’inizio di questa infezione morale: “La perfidità di tutto questo si nasconde nel fatto che, nel momento in cui si supera la prima soglia, l’ultima appare ancora intollerabile, mentre sembra che esistano buoni motivi per fare il primo – e non così terribile – passo. Questa è probabilmente una minima trasgressione nei confronti di una già fragile intima convinzione, nei confronti di una sensazione moralmente spiacevole. Per ciascuno passo, il valore della soglia morale, che inizialmente era apparso come un ostacolo insormontabile, affonda. E alla fine, anche lo sterminio di esseri umani può apparire come qualche cosa che si potrebbe e dovrebbe attuare” (Wenzel, H. How Normal People become Mass Murderers, 2005).

Per questo le dittature hanno migliaia o milioni di complici. Le regole societarie sono cambiate, e certe regole semplici e rigide, applicate nell’anonimato, nella spersonalizzazione degli individui, portano a comportamenti anomali e criminali, all’interno di una famiglia, di un’azienda, di un’ospedale, di una prigione, di una società intera.

 

 

 

 

Guido Valobra De Giovanni

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